COS'È: l'ultimo imperdibile film del regista iraniano indipendente Kianoosh Ayyari, di cui non trovo la locandina.

Da sempre la sezione Orizzonti del Festival di Venezia è la più interessante: o si vedono film che usciranno in Italia mesi dopo (nella migliore delle ipotesi...) o si assiste a proiezioni che mai - MAI - avranno di nuovo luogo.
The Paternal House probabilmente rientra in quest'ultima categoria, come tutti i lavori di Kianoosh Ayyari e quasi tutti i film girati in un paese come l'Iran.
Quello che la maggior parte di noi (e probabilmente del mondo intero) sa riguardo all'Iran è che è una Repubblica Islamica, sa di Khomeini, dei suoi successori, di Ahmadinejad e delle conseguenze che tutte queste persone hanno o hanno avuto sulla società.
Questo film, però, ci dimostra da un lato che non basta decapitare la piramide del potere per risanare la società e dall'altro che, per quanto un errore possa essere perpetuato, ad un tratto la ragione (e la modernità) possono avere la meglio.

The Paternal House ripercorre la storia di una tipica famiglia iraniana per oltre 80 anni.
Con "tipica" non intendo, ovviamente, che tutte le famiglie si macchiano di colpe come quelle dei protagonisti nei film (lo spero, quanto meno), ma che non si tratta una famiglia disagiata o problematica.
Anzi.
Ci è subito chiaro che la casa dove si svolge l'intera vicenda (letteralmente: non si esce mai da quella proprietà, vagando tra la cantina, il giardino e un paio di brevissime puntate all'interno dell'abitazione vera e propria) è anche luogo di lavoro. Si tratta quindi di una famiglia che non fa la fame, rinomata tra i compratori di tappeti.
Ed è proprio nella cantina dove si rammendano i tappeti che avviene l'orrore.
Senza spiegazioni veniamo catapultati nel mondo di una ragazzina che rientrata a casa trova il fratello nello scantinato, intento a scavare un buco nel pavimento.
Un buco più lungo che largo, profondo abbastanza per...
Come avviene spesso tra fratelli cerca solidarietà, o quanto meno spiegazioni, ma trova solo un muro di genere che neppure il legame tra consanguinei riesce a superare.
In quel momento, il ragazzo che scava non è suo fratello né un bimbo di dieci anni: è un uomo. Un uomo che la giudica per quello che si dice abbia fatto.
Privo di colonna sonora, il film inizia con un quarto d'ora di inseguimento e sangue, che culmina con il rumore agghiacciante del pestello in pietra sulla testa della ragazza.
In un mondo in cui gli uomini sono carnefici e padroni, le donne pagano il prezzo del sospetto e dell'onore. Alla parte femminile della famiglia (madre e sorelle) viene taciuto il delitto e permesso loro di vivere nella speranza.
Un'inquadratura ricorrente ci lascia intuire, però, che la faccenda non è chiusa e che non sarà un episodio isolato.
La vittima seguente sarà sempre una donna e, non importa qual è il loro rapporto, il carnefice sarà sempre un uomo: padre, marito, fratello.
Ayyari ci mostra con sguardo consapevole quanta poca libertà abbia il genere femminile in Iran: parte del passato, ma la storia arriva fino ai giorni nostri e ci vogliono più  e più sacrifici (perché di questo si tratta) prima di intravedere uno spiraglio di luce.
Spiraglio che arriva e arriva proprio da quelle donne oppresse, che non sanno chi hanno a fianco o lo scoprono quando è troppo tardi.
Arriva grazie all'istruzione e all'apertura mentale; grazie ad una nuova concezione di sé che passa attraverso la microimprenditoria prima e l'università poi.
Come ha giustamente detto Gramellini nei giorni scorsi a proposito di Malala "Il cancro dell’umanità non sono mai state le femmine istruite, ma i maschi ignoranti".
Sono d'accordo, ma va aggiunto che le femmine istruite sono la cura a quel cancro.


GUARDALO SE:
vuoi vedere com'è possibile fare un film drammatico senza colonna sonora
vuoi assaggiare l'orrore di cui solo gli uomini sono capaci

EVITA SE:
no, non eviti: ora lo cerchi e te lo guardi

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Edna Von V
Se c'è qualcosa di più importante del mio ego su questa nave, la voglio catturata e fucilata.

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