COS'È: il ritorno in grande stile di uno dei massimi esponenti del cinema sudcoreano (non che se ne fosse mai andato, però, ecco, diciamo che si era un attimo distratto e gli era scappato Arirang).
Nell'angolo di mondo dove anche i sentimenti più puri devono piegarsi alla pressione del capitalismo e delle macchine industriali (il quartiere Cheonggyecheon, a Seoul), è comparsa una minaccia più grande della fame, dei debiti e della morte: un aguzzino che tortura i debitori per riscuotere (per conto terzi, ovviamente: ci muoviamo nei bassifondi di chi non ha LETTERALMENTE nulla da perdere) le assicurazioni sugli infortuni.
Pietà si riferisce non al senso più comune di questa parola, ma alla pietas intesa come dovere verso la propria famiglia, l'istituzione in grado di segnare così profondamente la vita di Gang Do, sia per l'iniziale assenza sia per la prepotente presenza con cui si manifesta all'improvviso.
Kim Ki-duk, con la leggerezza di cui solo lui è capace e che ricorda tanto Ferro 3, traccia un quadro dove la violenza è talmente latente in ogni momento della narrazione che il suo palesarsi non risulta mai forzato: sono scene dure, ma non creano uno "shock" nel senso più stretto del termine. In fondo l'orrore era sempre stato lì: visibile, strisciante, costante.
Pietà, per stessa ammissione del regista, è un film sulla violenza del capitalismo che adora il denaro come unica divinità e ragione d'essere.
Troppo. Forse è questo il più grande difetto di questo film: l'importanza del denaro è sottolineata fino a diventare didascalica.
Certo, fosse sempre questo il maggiore (e unico) neo all'interno di un film. Però Ki-duk c'ha insegnato a considerarci spettatori intelligenti, che non hanno bisogno dello spiegone minuto-per-minuto.
Invece qui, complici anche alcuni dialoghi evitabili, ci sentiamo un po' troppo portati per mano in un mondo che ci dà tutte le chiavi di lettura per poterlo interpretare in completa autonomia (una su tutte: la scena delle interiora di gallina sul pavimento).
Possiamo chiudere un occhio su questo dettaglio? A Venezia han pensato di sì e io sono d'accordo.
Perché la violenza fomentata dalla vendetta che si maschera da amore e sacrificio non è mai stata così poetica.
Un film più lineare rispetto agli altri di Ki-duk e alla media del cinema sudcoreano; una storia brutale per l'autenticità dei sentimenti che narra; un ragazzo abbandonato a se stesso; una madre che per il proprio figlio farebbe qualunque cosa.
Qualunque.
GUARDALO SE:
vuoi scoprire il magnifico mondo del cinema sudcoreano ma non sai da dove iniziare
vuoi volere di nuovo tanto bene a Kim
EVITA SE:
sei di quelli "ah, signoramia, la violenza no!"
vuoi ascoltare la colonna sonora (non c'è)
fai confusione coi personaggi perché "gli asiatici son tutti uguali"
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su XCondividi su Facebook
Nell'angolo di mondo dove anche i sentimenti più puri devono piegarsi alla pressione del capitalismo e delle macchine industriali (il quartiere Cheonggyecheon, a Seoul), è comparsa una minaccia più grande della fame, dei debiti e della morte: un aguzzino che tortura i debitori per riscuotere (per conto terzi, ovviamente: ci muoviamo nei bassifondi di chi non ha LETTERALMENTE nulla da perdere) le assicurazioni sugli infortuni.
Pietà si riferisce non al senso più comune di questa parola, ma alla pietas intesa come dovere verso la propria famiglia, l'istituzione in grado di segnare così profondamente la vita di Gang Do, sia per l'iniziale assenza sia per la prepotente presenza con cui si manifesta all'improvviso.
Kim Ki-duk, con la leggerezza di cui solo lui è capace e che ricorda tanto Ferro 3, traccia un quadro dove la violenza è talmente latente in ogni momento della narrazione che il suo palesarsi non risulta mai forzato: sono scene dure, ma non creano uno "shock" nel senso più stretto del termine. In fondo l'orrore era sempre stato lì: visibile, strisciante, costante.
Pietà, per stessa ammissione del regista, è un film sulla violenza del capitalismo che adora il denaro come unica divinità e ragione d'essere.
Troppo. Forse è questo il più grande difetto di questo film: l'importanza del denaro è sottolineata fino a diventare didascalica.
Certo, fosse sempre questo il maggiore (e unico) neo all'interno di un film. Però Ki-duk c'ha insegnato a considerarci spettatori intelligenti, che non hanno bisogno dello spiegone minuto-per-minuto.
Invece qui, complici anche alcuni dialoghi evitabili, ci sentiamo un po' troppo portati per mano in un mondo che ci dà tutte le chiavi di lettura per poterlo interpretare in completa autonomia (una su tutte: la scena delle interiora di gallina sul pavimento).
Possiamo chiudere un occhio su questo dettaglio? A Venezia han pensato di sì e io sono d'accordo.
Perché la violenza fomentata dalla vendetta che si maschera da amore e sacrificio non è mai stata così poetica.
Un film più lineare rispetto agli altri di Ki-duk e alla media del cinema sudcoreano; una storia brutale per l'autenticità dei sentimenti che narra; un ragazzo abbandonato a se stesso; una madre che per il proprio figlio farebbe qualunque cosa.

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vuoi scoprire il magnifico mondo del cinema sudcoreano ma non sai da dove iniziare
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Edna Von V
Se c'è qualcosa di più importante del mio ego su questa nave, la voglio catturata e fucilata.
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